Dal libro "Suoni della Memoria" di Massimo Freccia - Associazione Massimo Freccia

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Dal libro "Suoni della Memoria" di Massimo Freccia

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Alcuni passaggi estratti dal libro di Massimo Freccia "The sounds of Memory", Michael Russel (Publishing) LTD, tradotto da Cintia Rucellai ("Suoni della Memoria") ed edito da Maria Pacini Fazzi.

  





 
"Non lontano da Pistoia, poco sopra la borgata di Candeglia, una casa di campagna fiancheggiata  sui due lati da muretti a secco sale lungo  un lato della vallata, inerpicandosi fra vigneti ben curati, fino a ridursi a poco a poco in un viottolo che porta alla sommità della collina.
  
  In questo luogo, seminascosta da annosi castagni, sorge la chiesa parrocchiale di Valdibure, nella cui sacrestia una libreria piena di polvere e di tarli racchiude un documento ingiallito che comprova la mia legale esistenza:
<Massimo Filippo Antongiulio Maria Freccia è nato il 19 Settembre 1906>...

  Avrò avuto sei o sette anni quando mia madre rientrò a casa una sera accompagnata da un signore pallido, dai lunghi capelli bianchi, che indossava una lucida marsina e portava una custodia di legno nero.
<Il professore> mi disse, <sarà il tuo insegnante di violino.>...

  La mia famiglia viveva a Firenze. Fin dalla prima infanzia fui allevato in un cupo palazzo del quattrocento nella zona medievale della città...

 Mia madre si chiamava Porzia de' Rossi ed era di una famiglia aristocratica pistoiese. Nel duecento i suoi antenati possedevano le terre dalle pendici degli Appennini fino alla pianura, ed erano i signori di Pistoia.
  Ma nel corso di cinque secoli persero sia terre che potere, e quando nacque mia madre tutto ciò che rimaneva era una bellissima villa con alcune case coloniche.

  Da parte di padre, sua nonna era una de' Pazzi, antica famiglia fiorentina di crociati, assassini, e una santa. Pazzino de' Pazzi e i crociati toscani furono i primi a prendere d'assalto Gerusalemme nel 1088. Per ricompensa Goffredo di Buglione concesse loro come insegne araldiche cinque croci e due delfini, oltre a tre pietre focaie provenienti dal Santo Sepolcro...
  
  Il lato omicida della famiglia, certo meno spirituale, era più pratico: uccidere i Medici, malgrado Guglielmo de' Pazzi fosse sposato con Bianca, la sorella prediletta di Lorenzo il Magnifico (cosa che in seguito gli salvò la vita).
  
  La congiura era studiata con astuzia: durante la Messa solenne, quando Lorenzo e Giuliano si sarebbero inchinati all'elevazione dell'ostia, fu giudicato il momento giusto per pugnalarli.
  Giuliano fu ucciso, ma Lorenzo, sfortunatamente per i Pazzi, riuscì a fuggire da una porta della sacrestia, e si vendicò facendo impiccare alcuni dei Pazzi in Piazza della Signoria e mettendo al Bando da Firenze gli altri.

  Agli inizi del seicento vi fu una santa in famiglia - Maria Maddalena de' Pazzi. Il suo corpo, che mai subì decomposizione, è tuttora custodito in chiesa, in un feretro di cristallo.
  
  Mentre la famiglia di mio nonno oscillava dal crimine alla santità (una nobil donna intellettuale del quattrocento le guadagnò ulteriore merito dando i natali al poeta Torquato Tasso), la famiglia di mia nonna, i Rucellai, annoverava ricchi banchieri mecenati delle arti.
  Uno di questi, Giovanni, commissionò a Leon Battista Alberti il progetto per le facciate del palazzo di famiglia e della chiesa di Santa Maria Novella.
  Suo figlio Bernardo, un grande studioso, sposò Nannina (Lucrezia) de' Medici - altra sorella di Lorenzo - ed essi ebbero un figlio, Giovanni, che divenne un notevole scrittore e storico. Tutto ciò sembrerebbe un albero genealogico di buon comportamento; ma il mio bisnonno sposò una discendente del Conte Ugolino della Gherardesca, di cui Dante nella sua Divina Commedia, "Più che il dolore poté il digiuno", a significare che egli si mangiò il figlio per fame quando erano imprigionati insieme a Pisa…

  Mia madre era una donna molto bella, dai lineamenti raffinati e dagli affascinanti occhi malinconici. Era stata educata in casa con le sorelle, e tutte suonavano il pianoforte, cantavano e parlavano il francese e l'inglese.
 
 Negli ultimi anni della sua vita, però non era più in grado di suonare il pianoforte, e prese ad interessarsi di letteratura e di studi teologici. Divenne inoltre molto religiosa, preparandosi alla morte, che sopraggiunse lieve come il consumarsi di una candela, mentre un silenzio lieve si diffondeva per tutta la casa.
  
  Era stata molto felice con mio padre, un bell'uomo, elegante nel vestire e buon conversatore che aveva studiato legge all'università di Ginevra e a Oxford. Era un abile acquerellista e portava sempre un album da disegno in tasca per poter tratteggiare un campanile o qualche scena che colpiva la sua fantasia.
 Di professione era avvocato, e la maggior parte dei suoi clienti proveniva dalla colonia anglo-americana di Firenze…
  
  

 All'inizio della prima guerra mondiale avvenne una cosa importante: venne a vivere con noi la mia prozia russa… Una donna dalla personalità dominante, che sarebbe riuscita ad oscurare l'entrata in scena di Chapliapin nella scena di incoronazione del Boris…
 Era una donna intelligentissima, spiritosa, originale, sensibile, eccezionalmente musicale, fuori dal comune, e viveva in un mondo eccentrico…
  
  Quanto a me, la sua versatilità musicale slava mi rivelò tutto un mondo nuovo. Sedeva al pianoforte per ore riversando torrenti di emozioni in Tchaikovsky o Anton Rubinstein.
 
  Un raro senso dell'armonia la portava ad abbandonarsi in melodiose modulazioni, a gustare certi voluttuosi accordi di nona, a trovare pace e conforto nella Romanza in Fa diesis di Schumann, o l'estasi del canto di Brangania dalla torretta nel secondo atto del Tristano. I suoi sentimenti profondamente emotivi, la propensione introspettiva per la rinuncia, l'abbandono, e il romanticismo, mettevano in agitazione il mio subconscio giovanile, stimolando in me la curiosità per un nuovo mondo di esperienze.
 
 Tirato su da mia madre nella più rigorosa tradizione classica, attinente allo stile sobrio e semplici proporzioni di Vivaldi, Corelli, Viotti e Tartini, mi turbavano la sua mancanza di corretto fraseggio ed il suo indulgere nel sentimentale.
 D'altra parte ero stimolato dal suo vivace senso del colore e del dramma…


 
A diciassette anni chiesi a mio padre i ricevermi nella sua biblioteca. Volevo parlargli del mio futuro, ed essendomi preparato a fondo su come affrontare l'argomento, mi sedetti tranquillamente in una poltrona vicini alla sua scrivania. Mio padre rimase intento a scrivere la sua lettera per un po' di tempo, e ciò mi consentì di ripassare mentalmente i punti da esporre.
  Mentre stavo elaborando il mio discorso, mi accorsi che lui mi fissava, e preso alla sprovvista, balbettai: "Io voglio essere un musicista e nient'altro. Sto pensando di iscrivermi al Conservatorio di Musica".
  Un lungo silenzio fece seguito alla mia breve dichiarazione. Mi ero aspettato una reazione violenta alle mie parole, invece mio padre si alzò all'improvviso, e mentre riordinava alcune carte sulla scrivania, disse con calma di essere profondamente turbato dalla mia dissennata decisione, che mi sarei prima o poi pentito del passo che stavo per fare, e quanto fosse assurda l'idea di un giovane di buona famiglia di scegliere la musica come professione.
 Dopodiché uscì dalla stanza, ed io rimasi solo a riflettere. In seguito non fece alcun cenno all'argomento, ed io tenni fede al mio proposito.

  Mi iscrissi al Conservatorio nella classe di teoria e composizione all'inizio del trimestre, e ben presto mi resi conto che il corso di contrappunto e fuga era noioso e privo di interesse. Continuai a seguirlo appena quel tanto necessario per passare l'esame, e invece mi concentrai sugli studi di violino, ampliando la mia ancor limitata conoscenza della musica da camera e facendo nuovi incontri, dato che ero in contatto con un mondo per me nuovo.
  A quel tempo Ildebrando Pizzetti era il direttore del Conservatorio Luigi Cherubini. Pizzetti era un importante esponente di quel movimento che stava abbandonando il realismo teatrale di Mascagni, Leoncavallo, Puccini, Zandonai e Giordano; le sue opere giovanili, Fedra e Debora e Jaele, erano già state eseguite alla Scala sotto la direzione di Toscanini…


  
 Con la collaborazione di studenti del Conservatorio e musicisti dilettanti ansiosi di suonare musica d'insieme, ogni settimana affrontavamo composizioni per piccola orchestra, sconosciute in una città a quei tempi priva di un'orchestra sinfonica e dove il grammofono era ancora una novità. In certe occasioni quando il gruppo si allargava troppo, dato che ero io il capobanda, dovevo stare in piedi in modo da essere in vista per guidarli e tenerli insieme. Per la prima volta in vita mio stavo dirigendo.
  
  In tempi più recenti sono stato spesso intervistato e immancabilmente mi si chiede come è capitato che divenissi un direttore d'orchestra. Ho spesso notato un'espressione di delusione sul volto del mio interlocutore perché non sono in grado di fornire una spiegazione più sensazionale degli inizi della mia carriera.
Non ho mai preso una lezione di direzione d'orchestra; sono stato il maestro di me stesso.
  
  Ho imparato principalmente con le prove della musica da camera e osservando altri direttori al lavoro, e ho tratto più vantaggio dai loro difetti che dalle loro qualità. Come musicista di strumento ad arco, avevo il braccio destro dotato di una naturale disinvoltura, una disposizione che permette all'orchestra di suonare agevolmente; di conseguenza approfittai della benevolenza dei miei compagni per sperimentare una professione per la quale stavo rapidamente sviluppando una irresistibile aspirazione…

 Conobbi Luigi Dallapiccola al Conservatorio di Firenze e per diversi anni fummo inseparabili. Aveva una memoria prodigiosa, un senso dell'umorismo pungente e una formidabile forza di volontà. Abile pianista, passava ore ad esercitarsi nel suo studio, e devo a lui la conoscenza  di un'ampia e varia letteratura pianistica che altrimenti avrebbe potuto sfuggirmi.
L'amore per la musica in lui era ossessivo e suonava tumultuosamente. Durante le nostre lunghe passeggiate notturne per le strade deserte di Firenze non potevo che ammirare la sua eloquenza ricca di immagini e l'acuta sensibilità; già allora la sua competenza critica che dimostrava per il mondo dei compositori italiani contemporanei, rivelava un personalità decisa a trovare nuove forme espressive…

 Il più noto dei compositori italiani contemporanei, Casella, dava un notevole impulso alla vita artistica italiana guidando i giovani verso un monda musicale più impegnativo.
Volevo molto bene ad Alfredo Casella e ho sempre pensato che avesse per me una sincera simpatia…

 Consapevole dei miei difetti, decisi di imparare mettendo a frutto la mia naturale predisposizione per l'ascolto. Mio padre non ebbe da obiettare al mio desiderio di viaggiare, ma si oppose alla mia scelta di Berlino, suggerendo Vienna come luogo più adatto...

Un po' di denaro ereditato dalla zia mi dava un'assoluta indipendenza, e così partii per conto mio: era il mio primo viaggio all'estero.
Arrivai a Vienna una sera di settembre...




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  Oggi torno indietro con il pensiero ai lunghi anni in cui sono stato direttore dell'Orchestra RAI di Roma solo per ricordarne i momenti gratificanti.
Fra i concerti che ho diretto, i due tenuti per papa Giovanni XXIII  mi resteranno profondamente impressi nella mente.
Mi toccò la buona sorte di suonare nella Sala delle Benedizioni della Basilica di San Pietro, in un tempo in cui esisteva ancora lo splendore della magnificenza papale.
  Il Papa era scortato dalla Guardia Nobile ad un trono sulla sinistra di una piattaforma costruita appositamente per l'orchestra, in cui sedeva circondato dal suo seguito più ristretto.
  Il Collegio dei Cardinali dalle vesti rosso vivo occupava la prima fila, dietro venivano i ranghi di arcivescovi, vescovi e monsignori in viola, e più indietro i diversi ordini di monaci. I corpi diplomatici erano in abito da cerimonia, frac, cravatta bianca e decorazioni, con il tradizionale panciotto nero da indossare in presenza del Papa. Dietro a loro, ammessi per invito, il pubblico.
  
  Era una visuale maestosa, uno spettacolo organizzato fino nei più minuti dettagli, che non lasciava nulla al caso.
Sfortunatamente ad uno dei miei concerti successe l'imprevedibile. L'evento veniva trasmesso in televisione, in particolare nei paesi oltre cortina ed era concesso il tempo supplementare all'annunciatore per la traduzione nelle diverse lingue. Ogni movimento era sincronizzato alla frazione di secondo.
Lo spettacolo era fissato per le sei e mezzo. Io dovevo salire sul podio alle 18,29 per attendere Sua Santità, che entrando nella sala, aveva esattamente il tempo per raggiungere il trono e dare l'ordine per l'inizio del concerto dopo la solita benedizione.
  Ero nel mio camerino, costruito per l'occasione - una specie di baldacchino in ricco damasco di seta rossa, arredato con una poltrona dorata - quando alle 18,25 un monsignore ansimante irruppe sotto la mia tenda per annunciare che Sua Santità sarebbe entrato in sala fra qualche istante. Mi precipitai sul palcoscenico e salii sul podio nel preciso momento in cui il Papa faceva il suo ingresso nel salone.

  L'orchestra si alzò in piedi, il pubblico si inginocchiò e nel silenzio rispettoso si udiva soltanto il rapido e regolare fruscio delle vesti di raso del corteo papale che si avvicinava al trono.
In pochi secondi erano tutti nuovamente seduti e un gesto paterno di Sua Santità mi dava l'ordine di dare inizio al concerto.
  Non erano ancora le sei emezzo, e la piccola spia nascosta, che accendendosi mi avrebbe dato il segnale di iniziare l'esecuzione, era inesorabilmente spenta.
Vedevo il produttore, i tecnici televisivi e altri, in preda a grande agitazione: ciascuno con gesti diversi mi avvertiva di aspettare, dato che non erano ancora in onda e doveva essre letto l'annuncio in tre lingue diverse.
Per ammazzare il tempo detti una tiratina al mio polsino destro, poi al sinistro, mi aggiustai la cravatta bianca, sempre con un occhio alla spia per vedere se lampeggiava.
  Mentre il Papa rinnovava l'ordine di iniziare, un produttore televisivo a quattro zampe nel settore dei tromboni, misupplicava con gesti disperati di attendere.
Prima di iniziare un concerto, alcuni direttori tengono gli occhi chiusi per concentrarsi o lanciano uno sguardo napoleonico per galvanizzare i loro uomini, i pianisti usano sempre avvitare lo sgabello, i violinisti pizzicano le corde o aggiustano il cuscinetto sulla spalla sinistra; io invece pensai che in un luogo sacro sarebbe stao appropriato prendere un'espressione mistica, guardando il soffitto come se attendessi l'ispirazione divina.
  Con la coda dell'occhio vedevo Sua Santità che s'informava dal segretario di camera sul motivo del ritardo. Con un tipico gesto italiano agitava la mano rivolta verso l'alto, le dita unite al pollice.
 Fu un immenso sollievo quando la spia verde mi venne in soccorso dopo quattro minuti che erano sembrati un'eternità.



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  Ero appena rientrato da un viaggio in Giappone quando ricevetti un messaggio da mio fratello Vieri che mi chiedeva di chiamarlo a casa a Milano. Mi misi finalmente in contatto, e lui mi disse tranquillamente che gli rimanevano soltanto pochi mesi da vivere...
Al termine della sua vita umana, prima della dissoluzione della coscienza, aveva ritrovato la fede, e tramite la Chiesa era entrato nell'universo spirituale nel quale sperava.

  Con la sua morte mi ritrovai improvvisamente a confronto con la reaqltà di una vita terrena che aveva seguito il suo corso parallela alla mia ed era giunta al suo termine, e che una parte del mio sangue se n'era amdata per sempre. Si trattava dell'esperienza di una scomparsa parziale, poichè eravamo entrambi nati cristiani e di conseguenza credevamo nella vita oltre la morte. Uno di noi due aveva liberato l'anima dalla prigionia del corpo, l'altro aveva da finire ancora il suo tempo terreno. Rimasi profondamente sconvolto, e il mio dolore mi spinse a ricercate tutto ciò che rimaneva della mia giovinezza, dagli album di fotografie della mia famiglia polverosi, per lunghi anni dimenticati nello scaffale di una libreria, ai molti parenti mai più visti da tanto tempo.

  Questo desiderio di riavvicinarmi ai miei parenti mi spinse  ad accettare un invito ad una riunione di famiglia presso una delle loro proprietà feudali nella piatta e aspra zona fra Roma e Civitavecchia. I legami di consanguineità furono presto ristabiliti dai ricordi in comune, e fui lieto di conoscere alcuni cugini che avevo visto soltanto da neonati quando i genitori erano orgogliosi di scambiarsi le nostre fotografie a Natale.

 Nonostante la sede della famiglia sia Roma da trecenro anni, gli Odescalchi non Hanno niente di romano. Originariamente banchieri della Lombardia, fu un prete, Innocenzo Odescalchi, a portar loro gloria nel 1676 salendo al soglio di Pietro come Innocenzo XI; fu uno dei grandi papi della storia, austero ed autoritario, ed il suo generoso contributo finanziario consentì agli austriaci di combattere gli infedeli turchi. Affrontò Luigi XIV sulls crescente intrattabilità della Chiesa gallicana, rifiutandosi di consacrare vescovi numerosi candidati scelti dal re...

  Le nostre visite ai miei cugini nella loro proprietà sul Mediterraneo divennero sempre più frequenti, finché non finimmo per prendere in affitto  a vita una piccola villa indipendente situata fra il margine del parco e un tratto di macchia che arriva al mare...
Il più giovane dei cugini, Guido, minore di me di dodici anni, è il mio padrone di casa e abita in una casa colonica elegantamente ristrutturata con un'ampia veduta sul mare a pochi passi da noi.
  La vicinanza delle nostre abitazioni incoraggiava dei rapporti molto stretti, fondat sull'affetto e la parentela. La mattina passeggiavamo per un'ora all'interno del parco del Castello di Palo, di proprietà di Ladislao, un altro cugino. Il castello fu costruito intorno ad una delle torri medievali tanto frequenti nella costa tirrenica per difendere l'Italia dalle invasioni dei saraceni. L'attuale struttura, le cui origini risalgono agli inizi del secolo XI, fu per un certo periodo il casino di caccia di Papa Leone X. Nella massiccia muraglia esterna si apre un elegante portale del Sangallo.
Secondo una leggenda, fu dal Castello di Palo che la Regina Cristina partì per la Svezia...
  
  Il mio interesse per la religione è sempre stato legato alla tradizione, l'eredità di una famiglia cattolica,  e no ho complessi di natura spirituale. Siamo nati cattolici ed il cattolicesimo è il nostro modo di vivere, e anche se non sono mai stato un osservante fanatico nè disperatamente impegnato a guadagnarmi una vita futura in paradiso, ho sempre creduto in Dio e nella vita dopo la morte...

A volte mi sento a disagio nel mondo di oggi, malgrado non abbia in programma di lasciarlo. Sono fondamentalmente un tradizionalista per natura. La cultura fonda le sue radici nel passato, ed io ritengi che un artista abbia la massimo responsabilità di difenderne la realizzazione, mantenebdo alti i propri principi.
Ho sempr tenuto in mente una massima di Sir Isaac Newton: " Se ho visto più lontano è perché stavo sulle spalle di giganti".

In questi ultimi anni i miei impegni musicali sono stati intrapresi principalmente per motivi sentimentali. Monte Carlo è il luogo dove ho diretto più sovente, perché Renzo Rossellini era il direttore artistico. Al tempo della mia prima direzione a Roma all'inizio degli anni trenta  con la Budapest Symphony, Renzo era il critico musicale del Messaggero e fece una recensione entusiastica del concerto.
  Ci conoscemmo poco tempo dopo e diventammo amici. Mi stava simpatico anche suo fratello Roberto, malgrado fossero assai diversi. Renzo era calmo e posato, dedicato alla musica - un accolito convenzionale della scuola francese; Roberto, al contrario, a detta della famiglia era uno sventato, scialacquatore, giocatore d'azzardo e bohémien, un giovane che non avrebba mai combinato niente.
  A conto fatti, quando rientrai in Italia dopo la guerra, Roberto era all'apice della fama mondiale all'ndomani dell'uscita del suo eccezionale film Roma, città aperta, e nel pieno della sua vulcanica storia d'amore con Ingrid Bergman, che in seguito sposò...

  Nel giugno del 1986 mia moglie ed io eravamo a cena al Connaught Hotel con Wanda (Toscanini ndr) e Volodia Horowitz, la sera prima della partenza per un tour di concerti in Giappone. Parlammo dei vecchi tempi,  i grandi concerto diretti da Toscanini, la sua generosità, la sua disponibilità per aiutare le organizzazioni bisognose, ed il suo attaccamento alla Casa Verdi, fondata dal compositore a beneficio dei musicisti nel 1889 - Verdi fece costruire il palazzo, lo sovvenzionò con un fondo e gli assegnò i suoi diritti d'autore. Eravamo tutti d'accordo che sarebbe stato bellissimo poter dare un concerto a Londra l'hanno seguente per commemorare il trentesimo anno della morte del Maestro. Dissi che naturalmente sarei stato felice di dirigerlo e che si sarebbe dovuto eseguire i Requiem di Verdi.
Wanda era d'accordo e fu deciso che i proventi sarebbero andati alla Casa Verdi ed al Musicians Benevolent Fund.

Il concerto in memoria di Arturo Toscanini ebbe luogo il  15 giugno 1987 nel Royal Albert Hall alla presenza della Principessa del Galles. La Philhalrmonia Orchestra, con un insieme di 450 voci - London Philharmonic Choir, Brighton Festival Chorus e London Choral Society, con Elisabeth Connel, soprano, Diane Curtis, mezzo soprano, Dennis O'Neill, tenore, e Nikita Storojev, basso, come solisti - erano le mie forze sotto la mia direzione.
Fu un successo memorabile.
Ero soddisfatto del risultato e contento di aver potuto contribuire al ricordio di Toscanini e ad una causa che era stata molto vicina al suo cuore.

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